Abbiamo i nostri sospetti, certo, ma ancora nessuna prova: tuttavia, non lasceremo questo deserto prima di aver recuperato i nostri averi – inclusa la sciabola del mio bisavolo – e di aver avuto la giusta soddisfazione da chi ci ha irriso. La morte potrebbe essere una giusta compensazione per quanto abbiamo subito.
Forse.
Ma forse è meglio procedere con ordine.
Dopo aver abbandonato il castello transilvano, siamo ritornati verso la civiltà, ma prima di tornare negli Stati Uniti ci siamo fermati per dieci giorni ad Atene: la gamba di Sakasà era peggiorata, e avrebbe rischiato l'amputazione se non avesse ricevuto pronte cure. Invece, se l'è cavata con una zoppia permanente.
Nel frattempo, io ho studiato il De vermis misteris, una vera miniera di informazioni, e abbiamo mandato un testo cinese trovato nel castello a Von Castellan, che ce l'ha mandato tradotto (parlava degli accorgimenti utili a sperare di uscire vivi dalla Grande Biblioteca di Celano), insieme all'ordine di raggiungere il dott. Galloway , eminente archeologo, che stava cercando invano la tomba di Nephren - Ka, antico Gran Sacerdote egizio e che, come risultava dai libri da noi scoperti, era stato il più antico appartenente alla Confraternita del Capro Nero.
Avremmo potuto tornare negli Stati Uniti, ma il biglietto sarebbe costato 100 $ a testa, mentre Von Castellan ci aveva accluso i biglietti per Il Cairo, così la nostra sete di conoscenza ci portò a proseguire la nostra avventura, non prima di aver spedito all'Università i nostri più preziosi ritrovamenti.
Al Cairo ci aspettavano due assistenti del professore, che avevano l'incarico di portarci da lui, e che si rivelarono presto uomini più colti che simpatici. Il vanto di saper leggere i geroglifici li rendeva di una insopportabile supponenza nei nostri confronti.
Eppure, la conversazione con loro non sarebbe stata la prova peggiore che avremmo affrontato in Egitto.
Per l'intervento di qualche entità angelica, probabilmente, non avevano l'incarico di accompagnarci sino al campo base del professore, ma a metà strada ci affidarono ad alcune guide. Il viaggio, però, fu subito duro: prima fummo ostacolati da una tempesta di sabbia, e poi accerchiati da un branco di predoni, evidentemente prezzolati da qualche oppositore, che ci bendarono, depredarono e gettarono in una profonda fossa, distante un giorno di cammino dal luogo dove eravamo stati catturati.
Per nostra fortuna – se di fortuna si può parlare per chi ha appena perso tutti i suoi risparmi e la spada degli avi – i predoni non avevano controllato la tomba a cielo aperto nella quale ci avevano gettati: un crollo aveva aperto un percorso nelle viscere della terra. Il percorso era stato scavato da mano umana, era fiocamente illuminato da strane torce che si spegnevano non appena venivano staccate dal muro, e proseguiva per molti chilometri, sino a sboccare in una strana grotta, dove tutti vedemmo – o credemmo di vedere – un uomo alto, su un trono, in posa solenne con due assistenti, uomini con la testa di coccodrillo, che si avvicinarono di un passo verso di noi. L'alto uomo nero (che subito riconobbi come la forma umana del dio Nyarlatothep) fece un cenno, e fummo travolti da un flusso di conoscenze arcane e pensieri spaventosi, capaci di minare persino la nostra già non solidissima solidità mentale.
Quando ci riprendemmo, tutto era sparito. Solo una luce, in alto, ci indicava una via di fuga. La cogliemmo, ma per due giorni dovemmo vagare nel deserto, sfiniti, senza cibo né acqua, sotto la guida di Sakasà (il cui itinerario prevedeva percorsi ad anello), prima di trovare gli uomini del professore: eravamo salvi!
Faticammo un po' a convincere il professore (che intanto era stato raggiunto dai due assistenti che ci avevano accolto al Cairo) dell'affidabilità delle nostre informazioni, ma alla fine decide di affidarci quattro braccianti per tentare lo scavo nel luogo da noi indicato.
Il primo giorno fu solo interlocutorio, ma mi servì a raccogliere le informazioni necessarie a trovare dove scavare con sicurezza l'indomani.
Per chi ci fosse arrivato.
Stabilimmo i turni. Ma la mattina dopo, non tutti eravamo vivi: i pezzi di Sakasà coprivano tutta la zona, come se fosse stato lacerato da una bestia sovraumana, che ci aveva risparmiato. Anche l'egiziano che aveva condiviso il turno di guardia con lui non era in condizioni migliori.
Ma l'avrebbe pagata anche il mostro. Anche se in fondo, poverino, lui seguiva solo il suo istinto, e poi Sakasà era già zoppo. Chi davvero doveva pagare era il maledetto ladrone, che magari se la stava spassando con i miei mille dollari e giocherellava la mia sciabola avita.
Lui non aveva scusanti.
Doveva pagare.
Pagare tutto.
Pagare caro.
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