mercoledì 13 aprile 2011

Le montagne della Luna


Due zoppi, un ferito grave, un morto, pazzia galoppante, il furto di tutti i contanti: decisamente, la trasferta in Europa prima, e soprattutto in Egitto aveva lasciato i segni sul nostro gruppo operativo. Gli orrori che avevamo visto, però, avevano almeno avuto l'effetto di temprare i nostri spiriti, al punto che riuscimmo tutti a superare senza impazzire l'aggressione di Von Castellan, furibondo per averci dovuto pagare i biglietti d'aereo e le spese sanitarie per le ferite eroicamente riportate al suo servizio.

E il relativo taglio di stipendio.

Per rinfrancarci, oltre ad ascoltare le cassette di Paul Lemond, abbiamo così deciso di concederci una piacevole vacanze, durante la quale ci siamo sfidati a chi riusciva a rimorchiare più donzelle e le più carine. Gutierrez si è dimostrato una spanna al di sopra di tutti!

[PROVATE IL CALIFFO]

Così rinfrancati, abbiamo deciso di muoverci verso il Perù, presso il piccolo villaggio di Huancucho, a 80 chilometri da Lima, dove da qualche tempo una nota multinazionale sta effettuando scavi e indagini minerarie. E dove, sempre da qualche tempo (leggermente più recente) si verificano una serie di piccole scosse telluriche. Non appena lessi questa connessione, mi vennero in mente un paio di mostri che, nel loro agitarsi, provocano terremoti. Unito alle profezie di cui eravamo a conoscenza, la prospettiva era più che sufficiente a preoccuparci.

Arrivati a destinazione, abbiamo trovato una situazione che potremmo definire intricata: se ci aspettavamo una scampagnata su pei monti – come facevo da giovane sulle Alpi dalla mia bella Italia – eravamo decisamente fuori strada.

Per fortuna che non ce l'aspettavamo.

All'ambasciata ci informarono della situazione:

1) c'era la miniera, controllata dalla multinazionale;

2) c'erano i militari, che avevano un campo lì vicino;

3) c'erano i ribelli che compivano incursioni sul territorio della miniera;

4) c'erano gli indios, che erano in fermento e facevano paura un po' a tutti.

Pensammo che il modo più sicuro di raggiungere la miniera fosse di accompagnarci ad una compagnia militare, che ci potesse proteggere in caso di attacco (o meglio coprirci la fuga: era la loro guerra e non volevamo entrarci).

Inoltre, così avremmo risparmiato l'affitto di un mezzo motorizzato o dei lama.

Gutierrez, come medico di origine andina, ci mise in guardia contro il malessere da rarefazione di ossigeno che avremmo potuto incontrare salendo. A mezz'ora di viaggio da Lima, cominciò a boccheggiare, mentre noi tutti chiacchieravamo con i simpatici militari, arrangiandoci con una comunicazione gestuale e poche parole.

Purtroppo o per fortuna, i militari non ci portarono sino a destinazione, ma ci scaricarono nell'ultimo avamposto (quasi) civile, da dove avremmo dovuto continuare sino alla miniera, dopo esserci riforniti all'unico emporio-bar del luogo.

CARRAMBA CHE SORPRESA!

Il proprietario, Vincent, non solo era francese, ma era anche amico di famiglia del nostro buon Gustave Peugeot. L'abbraccio fu commovente, e dopo un po' anche Gustave mostrò di ricordarsi di Vincent, benché fosse venuto via dalla Francia quando lui era piccino per non ben precisate differenze di vedute rispetto alla legge.

Restammo un po' nel retrobottega, bevendo un ottimo liquore locale che rese tutti felici e Dimitri ubriaco, finché non udimmo degli spari nella sala d'ingresso. Ci precipitammo quasi tutti di là: una vetrata rotta, un miliare agonizzante a terra, due chini al suo capezzale, erano quelli che ci avevano accompagnato, il signore che era stato seduto in veranda sparito. Gutierrez si lanciò a prestare i primi soccorsi al miliare, che fu presto portato via. Anche Dimitri ci raggiunse barcollando.

Vincent sembrava molto più turbato del negoziante medio che deve rifare la vetrata (e già questo è un buon livello di turbamento), ma non riuscimmo a capire altro che l'identità del tizio fuggito: era il capo dei ribelli.

Decidemmo comunque di lasciarsi alle spalle la cittadina per proseguire verso la miniera: non ci si poteva arrivare che con la guida del suocero di Vincent, con i lama da lui affittati (50 $ in totale, poi si dice che il dollaro è una moneta forte! Per fortuna Dimitri era ancora abbastanza sbronzo da offrirsi di pagare per tutti!

Purtroppo, non lo fu abbastanza per pagare i 100 $ chiesti dalla nostra guida per fornirci una mappa sulla collocazione di un antico idolo d'oro Inca.

Arrivammo alla miniera in tempo per un rapido giro di ricognizione con l'ingegnere responsabile: la miniera era, in realtà, un vasto campo di ricerca, su punti distanti anche chilometri, ideato per trovare metalli preziosi, spesso con avanzatissime tecnologie. Non era facile vigilare su tutto quel perimetro, come ci confermò il responsabile della sicurezza, con gli indios minacciosi, che avevano anche ucciso un paio di minatori. Comprendemmo, in linea generale, che i locali temevano che gli scavi infrangessero qualche tabù. L'ingegnere, uomo di scienza, non dava credito a tali superstizioni, ma noi ne avevamo viste troppe per non avvertire un brivido lungo la schiena.

O almeno così ci fu detto dall'ingegnere. A sera, dopo esserci rinfrescati nei nostri alloggi e aver gustato una discreta cena, ci recammo a far due chiacchiere con il medico del campo (con una passione per l'antropologia e l'archeologia), il quale era in vena di confidenze. Ci raccontò, per esempio, che i due minatori non erano stati uccisi dagli indios, né da umani, ma da morsi di serpenti velenosi.

Tanti morsi.

Molti più morsi di quanti ne avesse mai visti.

Quando uscimmo dalla casupola del medico, la notte era oramai calata. Le luci spente. Era oramai venuto il tempo di dedicarci a quello che era stato il nostro obiettivo dal momento stesso in cui l'avevamo visto: la baracca del capo ingegniere.

Colma di documenti.

Di certo compromettenti.

1 commento: